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Categoria: Internet e Business (Pagina 3 di 6)

I Miei Post basati su qualche forma di ragionamento e di esperienza

Lo shopping di domani: il “next e-commerce”

Se c’è una evoluzione darwiniana dell’e-commerce per gli shopping comparison è evidente, ma come e verso quale direzione si sta andando?

Due gli aspetti possiamo immediatamente inquadrare. 

  • Il prodotto (il sito per dirla breve) e come ci interagiamo: la shopping experience;
  • Il modello di business.

 

LA SHOPPING EXPERIENCE

Sono cinque le variabili che identificano l’analisi della “shopping experience”: l’offerta, il controllo, la convenienza, l’aspetto sociale e il contributo.

 

L’offerta dei prodotti

Lo shopping di una volta era limitato a pochi prodotti, a poche opzioni, a singoli prodotti, poche opzioni di ricerca se non nessuna.

Lo shopping di oggi è vasto in alcuni casi, parecchie opzioni a disposizioni per visualizzazione, scelta e selezione, e la ricerca sempre presente, ma giusto sufficiente.

Lo shopping di domani, il “next e-commerce” sarà quello in cui i risultati saranno giusti per me, la ricerca sarà la migliore e tali i risultati.

Nello stesso modo il Controllo è in evoluzione.

Lo shopping di una volta non dava assolutamente controlli all’utente, nessuna wish list, history, l’utente era SCONOSCIUTO fino all’acquisto.

Lo shopping di oggi ha introdotto controlli per l’utente di moderata entità, ma lo strumento di comunicazione più usato è la newsletter.

Lo shopping di domani sarà quello in cui io potrò controllare la mia esperienza, creare avvisi sui prodotti, avere history, poter fare confronti di prezzo, online e offline, salvare la mia esperienza e interagire per adattarla ogni volta meglio. 

Convenienza

Una volta lo shopping era una convenienza soltanto per il merchant. Era il negozio a decidere quando fare shopping.

Oggi la shopping experience è fatta per l’utente e spesso è conveniente per me.

Lo shopping di domani sarà quando potrò comperare sempre e in qualunque momento e da qualunque luogo.

Social e Connessioni

Lo shopping di una volta era solitario. Compravo da solo.

Oggi compro da solo, ma posso interagire con migliaia di opinioni e recensioni saltando di sito in sito, blog e forum.

Lo shopping di domani sarà quello di poter comperare grazie alla community a cui appartengo, chiedere consigli e avere risposte, ottenere e dare feedbacks autentici sugli acquisti.

Contributo

Lo shopping di una volta era un sito di ecommerce sviluppato per poi sperare che io ci andassi a comperare.

Lo shopping di oggi è ancora il negozio del merchant, ma per fortuna qualche volta posso dire la mia.

Lo shopping di domani è quello in cui la mia voce è un contenuto rilevante. posso costruire le mie opinioni, le mie pagine e la mia user interface, e condividerle con gli altri se apprezzate.

 

 

IL MODELLO DI BUSINESS

Il modello di business degli shopping comparison, praticamente degli agenti di vendita, è invece declinato anche in tipicità di internet (quindi come dei non agenti di vendita).

Per ogni click che mando al negozio, lo shopping comparison guadagna un certo valore (una media di 0,12€). Questo modello è tipico di internet, premia chi paga di più, ma si dissocia dalle normali dinamiche di vendita tipiche di un negoziante con il suo venditore in cui quest’ultimo è pagato sul successo delle vendite e non per il semplice fatto di fare entrare clienti nel negozio (che possono anche non comprare nulla o disinteressati).

Per ogni vendita che ti faccio fare, lo shopping comparison guadagna una certa commissione (una media del 4%). Questo è il modello più semplice per chi vende, è quello che naturalmente ci aspetteremmo anche online.

Ovviamente le due strade comportano diverse evoluzioni nel prodotto. La mia opinione è che il “next e-commerce” deve per forza evolvere attraverso il secondo modello di business, in cui negozio e piattaforma dello shopping experience tentano di risolvere aspetti di integrazioni con i negozi e con gli utenti non necessari nel modello in cui non mi interessa nulla del fatto che tu negozio sappia vendere, tanto paghi il click che ti mando in ogni caso.

La domanda vera è se il mercato è in grado di supportare un’evoluzione in quella direzione e quanto tempo dovremo aspettare prima che sia consolidato. Per questo chi sta percorrendo quella strada verso il “next ecommerce”, sta anche introducendo nuovi modelli di fidelizzazione.

 

DINAMICHE DI FIDELIZZAZIONE: Rebate e Cashback

Vi ricordate tutti il Riders Digest, vero? Era una pubblicazione mensile, oggi divenuta un colosso editoriale, nata nel 1922 negli Stati Uniti in cui il focus era quello di fare informazione popolare a 25c$ a numero. 

Ad appena 5000 copie vendute, essa introdusse un sistema di abbonamento che chiedeva ai lettori di pagare un certa cifra annuale fissa grazie alla quale si sarebbe fatto parte di un club di lettori esclusivi. Tali lettori avrebbero avuto la possibilità non solo di ricevere la rivista, ma anche di poter acquistare letture o pubblicazioni a prezzi molto più bassi di quelli di copertina. L’obbligo era di acquistare un certo numero di letture in un anno.

Un pay-per-club che tutt’ora è il modello di business di parecchie realtà che fanno vendita door-to-door oppure opt-in in cataloghi di prodotti riservati. Paghi una certa fee per poter acquistare prodotti venduti a prezzi molto più bassi di quelli in negozio.

Questo tipo di modello è oggi uno dei più remunerativi poichè praticamente la domanda-offerta è costruita quasi su misura e spesso la capacità d’acquisto di questa dinamica di business permette di operare con contratti vantaggiosi. In Europa online c’è ad esempio Webloyalty, gestita, tra l’altro, da Martin Child, ex CEO di Yahoo! Search Marketing UK.

REBATE E CASH BACK – Nella definizione di modelli di fidelizzazione che producano ritorno dei clienti c’è oggi online qualche forma di “rebate” o “cash-back”, come evoluzione di un modello consolidato dell’offline nord americano.

Però vanno spese due parole sul modello del Rebate tipico degli USA, perchè noterete subito che alcuni aspetti di quel modello non funzionano se portati online.

Come funziona intanto il Rebate? Semplice, si acquista un prodotto che costa 100€, all’interno del prodotto viene dato un sistema via mail o immediato per riavere indietro €20. Pertanto per poter pagare il prodotto 80€, è necessario a) spedire una cartolima e aspettare 4-6 settimane b) tornare al negozio con il coupon e ottenere i 20€.

La prima cosa da notare è che lo sconto è dato dal produttore e non dal negoziante. E’ chiaro che la prima domanda è perchè il prezzo non sia subito di 80€. Ovviamente nell’attività di “rebating” esiste una componente che si chiama “attrition” o “breakage” che determina in percentuale quanti rebate non giungono al successo per errori di compilazione, assenza di ricevute, date d’acquisto errate e altro. In ogni caso il rebate è spesso mail-in in modo da permettere al produttore comunque di incassare soldi e di doverne ridare una parte indietro dopo qualche mese, una specie di “prestito” destinato a qualunque tipo di investimento.

Insomma è un win-win per chiunque, sa il ciclo funziona sempre per tutti. Il produttore riceve più soldi subito, il negozio non rischia nulla, anzi può incentivare il prodotto con il rebate per ulteriori commissioni dal produttore e il cliente alla fine paga di meno.

Online oggi ci sono un pò di realtà che hanno preso questo modello e allineato alle esigenze di uno shopping comparison. Per primo Jellyfish, lo shopping poi comprato da Microsoft, aggregò centinaia di migliaia di prodotti 3 anni fa per primo offrendo un “rebate” su tutti i prezzi dei prodotti.

Il sistema lavorava nell’ottica di posizionare l’offerta come unica nel suo genere sia per gli utenti che per i negozi che vi partecipavano, sperando (come poi è successo) di generare interessi sempre più crescenti da parte di tutti.

Jellyfish non fa altro che fare accordi con i negozi che aggrega e stabilire una certa commissione sul venduto, come un agente di vendita. Stabilita la percentuale di guadagno, il modello di business sembrerebbe concluso. Più vendite ti porto e più commissioni guadagno.

Ma in Internet gli utenti vanno acquistati in varie modalità. Fidelizzare gli utenti con un sistema di Rebate è esattamente perfetto per un modello a commissione, poichè dei 10€ che Jellyfish prende dalla vendita di una stampante può decidere di darne una parte come “rebate” indietro all’utente che ha acquistato il prodotto.

E perchè no, anche il 100% di quello che Jellyfish guadagna.

In questo modo è come vendere prodotti i quali tutti contengano un rebate significativo. Come per il modello offline, anche online si deve aspettare. Aggressivamente Jellyfish può decidere di darti subito i soldi (un “immediate rebate”) sostenendo esso stesso l’esborso di cassa anticipato.

DIFFERENZE TRA IL REBATE OFFLINE E ONLINE – Bè, le differenze con il modello offline sono evidenti. Intanto nel modello offline, c’è proprio una componente di “insuccesso”, il “breakage” che fa parte del modello di business, che online non esiste più, poichè il 100% delle vendite e tracciato da tecnologie che non possono giustificare una “perdita” di una vendita. 

In secondo luogo non è più il produttore a fare “rebate”, ma un agente di vendita. Questo implica due problemi, un primo problema di cassa, visto che il produttore incassa di più e poi rende una parte, qui invece l’agente incassa un parte piccola che deve subito rendere all’acquirente. In secondo luogo il margine che rimane all’agente può essere troppo basso per sostenere il modello (anche se qui si introducono dinamiche nuove come quella del riders’ digest in cui una volta che il sistema funziona, semplicemente si va dai clienti e si crea un club, per anticipare cassa, creare capacità di acquisto e ribaltare il modello offline).

Abbassare il prezzo del prodotto è comunque alla fine la variabile. Non è difficile immaginarlo, ovviamente. A parità di qualità, a chi non piacerebbe pagare di meno una cosa, parecchio di meno?

La sfumatura tra “rebate” e “cash-back” è semplice. Benchè entrambi i sistemi abbattano un prezzo post-sale, in pratica nel cashback, i soldi indietro possono essere di chiunque, negozio, aggregatore, comparison o altri che sia. In questo caso un comparatore di prezzi fa il “cashback” perchè non è un produttore. Mentre è un “rebate” quando il prezzo di un prodotto viene tecnicamente abbassato con una fase di mail-in al produttore stesso, un’operazione di legittima proprietà dei produttori o distributori autorizzati.

Come Jellyfish, le dinamiche del cashback oggi le stiamo studiando in Bestshopping.com, il comparatore nato proprio su queste linee guida.

Ci sono altre realtà ovviamente oltre a bestshopping.com (ricevo spam regolarmente su questo blog da amministratori di S.R.L. ma che se contattati per approfondire l’argomento non rispondono nemmeno…), ma non sono veri e propri comparatori prezzo, ma seguono comunque dinamiche di cashback e rebate come quelle descritte in queste righe. Direi che sono più vetrine fatte con liste prodotti di altre affiliazioni e non contratti diretti con i negozi con lo scopo di accorpare indirizzi e-mail per generare business dal mailing e spesso, ahimè presentano online contratti legalmente discutibili, con clausole vessatorie non sostenibili e violazioni palesi nell’essere “sostituti di imposta” che sostengono di non dover fare ed essere a carico degli utenti! Insomma c’è ancora del far west in Italia, ma l’offerta del cash-back sarà sempre più presente anche in Italia.

Rif. Daily Net di oggi 18.02.2009 – pagina 12

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Yahoo! search marketing: il network di affiliati è qualità?

CAROL BARTZ – Non c’è dubbio che il nuovo CEO di Yahoo!, Carol Bartz, 17 anni in Autodesk, $19 milioni di dollari di stipendio per il 2009 in Yahoo! più bonus e stock option, abbia tutte le carte personali per risolvere la situazione in Yahoo!, quella di un business pubblicitario del display senza grandi crescite e quello della search decisamente in crisi, organica e paid che sia.

A differenza di Yang che per affetto personale verso Yahoo! non ha saputo conciliare l’offerta di Microsoft con se stesso, Carol Bartz ha saputo già risolvere i problemi in Autodesk con gran successo e senza trasformare l’azienda in qualcosa di diverso.

Yahoo! lo sa, il prodotto e i contenuti del portale sono ineguagliabili, almeno nella versione nord americana. I servizi on-line sono tra i migliori e la usability di Yahoo! è ancora una delle più attuali, costantemente sotto analisi. E di questo Carol ne è sicura.

SEARCH MARKETING DI YAHOO! – Quello per cui ha chiesto tempo dalle prime dichiarazioni è invece sul business della Search. Darla fuori oppure continuare a farla? Quali le opzioni, dismetterla e sostituirla con un partner, venderla e poi diventare un cliente di altri, unire le forze per poi transare lentamente? 

Tempo fa l’antitrust ha bloccato un accordo di minor entità tra Google e Yahoo! (giustamente) che avrebbe determinato un monopolio pericoloso. Pertanto se oggi deve succedere qualcosa, le opzioni per Carol Bartz non sono certo con Google.

TANTI PARTNER DI RICERCA NON FANNO BENE? – Nel frattempo, però, è proprio il business della search di Yahoo! a perdere sempre più potere. Non solo di reach, il numero di utenti che utilizzano Yahoo! non sale ma almeno non scende, ma la paid search di Yahoo, la Yahoo! search marketing, sta perdendo partner e traffico un pò ovunque.

Quando Yahoo! acquisto Overture (l’attuale Yahoo Search Marketing), la (s)vendita contemplava già una componente chiamata “perdita del network“, ovvero il fatto di diventare Yahoo! avrebbe fatto scappare i migliaia di partner di Overture, impauriti dall’arrivo e dalla competizione di Yahoo! stesssa sulla search e sull’advertising a click.

In realtà tale effetto non avvenne come previsto e la stessa YSM dimostrò che il network poteva resistere molto più a lungo e che Yahoo! non era un competitor del network. Diciamo che i soldi che la search portava erano tali da sistemare ogni cosa. Solo quando Google fu in grado di offrire molto di più agli stessi partner, il network di YSM iniziò a perdere colpi.

SE PERDI TRAFFICO, ALLORA DEVI… COMPRARLO! – Il problema di perdere traffico implica una serie di aspetti commerciali e di business non indifferenti.

Due i principali problemi se perdi traffico, il primo è che diminuiscono i clienti — quindi il bid medio che Yahoo guadagna dai click — e il secondo problema è che sei costretto a “comprare” traffico.

Il modo con cui Yahoo! oggi sta comprando traffico è quello di andare dai partner e chiedergli di portare più click possibili; in cambio i partner chiedono la lista delle keyword su cui c’è il maggior numero di clienti. Tale attività introduce delle componenti di “qualità” che, se non controllate, alla lunga aumentano l’entità del primo problema, ovvero il diminuire dei clienti, perchè all’aumento di click in modalità non spontanea corrisponde un diminuizione della conversione.

Yahoo! in questo momento è proprio in questa fase. Addirittura in US sono state cambiate le Terms and Conditions dei contratti degli inserzionisti per permettere agli editor di Yahoo! di poter modificare (in buona fede) i titoli, le descrizioni e le keyword delle pubblicità dei clienti, un’operazione che può anche generare maggior costo per il cliente, se questi non facesse opt-out (visto che l’attività è automaticamente attivatà per tutti di default).

Pertanto non solo oggi i partner di Yahoo! tentano di portare click sempre più innaturali, ma la stessa Yahoo! aumenta la capacità di tali click di … essere cliccati. Andrebbe tutto bene se ci fossero degli strumenti di controllo sui partner, ma con ben 1200 partners negli soli stati uniti, il processo può iniziare troppo tardi.

Qualcuno lo dica a Carol.

Google: “questo sito potrebbe arrecare danni al tuo computer”.

Curioso bug nei client di Google. Oggi alcune versioni per ogni risultato di ricerca Web indicano il messaggio “Questo sito potrebbe arrecare danni al tuo computer“, un avviso “amichevole” creato da Google per avvisare dell’accesso verso quei siti che ospitano link diretti a file che se eseguiti potrebbero intallare spyware o altro.

In pratica ogni risultato e’ un sito malvagio, secondo la serp di Google, un bug curioso che intanto non permette di navigare se non… utilizzando altri motori di Ricerca, Yahoo! o Live di Microsoft. Che sia una nuova strategia per togliere utenti dal colosso di Mountain View?

Peccato, non lo e’.

Morto Google Print ADs: 0,5% di conversione invece del 2% atteso.

Muore Google Print ADS, il servizio di Google nato qualche anno fa che permetteva agli inserzionisti di apparire con le pubblicità sui quotidiani locali e non sparsi per US (800 circa).

L’idea che infastidiva parecchio gli editori nazionali americani consisteva nel far mettere annunci la cui risposta dei lettori sarebbe avvenuta tramite contatto telefonico, un numero telefonico gestito da Google che permettesse a quest’ultimo di calcolare un potenziale ROI (e costo a telefonata) delle campagne dei clienti e aggiustare pertanto il costo nel tempo.

Nelle stesse prime fasi di Google Print, la conversion rate attesa da Google (e forecastata) era del 2%, ovvero su 100 lettori che guardavano la pubblicità sui quotidiani, almeno 2 avrebbero telefonato al cliente.

Invece, da subito, la percentuale si è stabilizzata intorno allo 0,5%, quattro volte meno di quanto atteso, un risultato che ha deluso Google e una percentuale di poco cambiata negli ultimi due anni (benchè il costo per gli inserzionisti sia salito comunque) tanto da inserire Google Print nel cimitero dei progetti, insieme a Lively, Google Video, Catalogue Search (la possibilità di indicizzare gratuitamente cataloghi cartacei), Jaiku, e altri progetti mai divenuti dei business model sostenibili.

Se Google avesse indagato un pò di più, avrebbe scoperto che quello 0,5% di conversione è già nei modelli di business dei pay-per-call, dove spesso l’1% è il massimo raggiungibile, salvo che le pubblicità agli utenti divengano invasive e nazionali con GPR elevatissimi.

Sta di fatto che fino ad oggi tale mercato non era ancora stato misurato. Ora Google (e noi altri) abbiamo dei parametri nuovi da usare nella direzione di un business simile.

La fase di Google del taglio dei costi indispensabile in questo periodo di riduzione di crescita è iniziata con la chiusura di 1000 contratti esterni e ora di 100 posti di lavoro per le persone a carico di questi progetti, ma per quello che si legge in giro è sicuramente una delle minori riduzioni di personale da parte delle .com.

Comparatori di prezzo e cash back, sistemi di fidelizzazione degli e-commerce.

Quando 3 anni fa nacque il progetto di un e-commerce 2.0 in cui il modello di business fosse a favore dei negozianti e non del motore di ricerca stesso, in cui l’utente fosse al centro del motore e non obbligato a vedere pagine che non voleva, in cui l’interazione tra gli utenti fosse basata su regole di sociologia moderna e non su mailing list, in alcune slide scambiate con qualche Venture si parla di cash-back e rebate come risposta al come poter aumentare il valore dell’utente nel tempo per un aggregatore di prodotti.

GLI SHOPPING COMPARISON, AGGREGATORI DI PRODOTTI E PREZZI – Gli “aggregatori di prodotti”, o shopping comparison, sono quei motori di ricerca con i quali per un prodotto che cercate trovate piu’ prezzi esposti per ogni negozio on-line che lo vende, vi permette di vedere dove acquistarlo e andarci se volete.

L’evoluzione del settore dello shopping retail e’ molto lenta poiche’ i margini dello shopping online sono tra i piu’ bassi. Non a caso ne’ Google ne’ Yahoo! hanno dato priorita’ a questo settore e Microsoft ha fatto i primi passi solo pochi mesi fa.

Poiche’ il poter dare una scelta di prezzo e’ una caratteristica molto apprezzata da parte degli utenti, tale caratteristica non e’ sufficiente a fidelizzare gli utenti su di un motore di shopping comparison, perche’ comunque l’utente vuole partire sempre da un motore di ricerca maggiormente preferito, come Google.

MODELLO A COST PER CLICK E PAY PER SALE – Poiche’ i modelli attuali dei motori di confronto prezzo sono ancora principalmenti slegati dal successo della vendita da parte dei negozi, ma ancora legati al semplice costo per click (ovvero il negozio paga per ogni utente che arriva anche se non compra nulla), questi motori non hanno sviluppato dinamiche di integrazione con i negozi atti a poter instaurare modelli di cash-back, coupon code o guadagno sul venduto, perche’ a loro non interessa far vendere.

Laddove, invece, il modello dello shopping comparison fosse a guadagno sul venduto (pay per sale, ovvero il motore guardagna solo se manda utenti e questi fanno acquisti), modello presente solo in pochissimi e piu’ moderni motori di ricerca – come bestshopping.com ad esempio -, le dinamiche di integrazione con il merchant e le fasi di vendita real-time sono tali da permettere l’introduzione di nuove dinamiche altamente fidelizzanti.

STRUMENTI DI FIDELIZZAZIONE DEGLI SHOPPING COMPARISON – Per fidelizzare gli utenti all’uso di uno Shopping Comparison pay-per-sale, uno degli elementi economici scatenanti e’ una modalita’ di remunerazione chiamata “cash back”, ovvero “soldi che ti ritornano dopo un acquisto”. Il sistema praticamente permette a chi compra di risparmiare una parte della spesa sotto forma di “storno”. Se ad esempio un televisore costasse 1000 euro, lo shopping comparison sarebbe capace anche di ridarvi subito anche 60 euro. Non male se il risparmi e’ immediato e per ogni prodotto.

Tre anni fa per l’appunto un progetto su cui sto lavorando, bestshopping.com, oltre a depositare una patent sul modello di verifica delle transazioni, il “cash-back” veniva battezzato per primo in un progetto italiano. Potete leggere del cash back di bestshopping.com a questa pagina.

Se per l’Italia questo modello puo’ sembrare debole vista la marginalita’ minima con cui gira il mercato e-commerce retail (ovvero tolto il Travel, Finance e Booking), in Europa invece il modello lavora da 4 a 8 volte il valore di conversione italiano, introducendo addirittura dinamiche di protezione al modello stesso da parte dei merchant, poiche’ questi temono che un ribasso di un prezzo possa portarli a dipendere troppo motore di confronto prezzi e a sentirsi chiedere un costo commissione piu’ elevato, pena la diminuizione del traffico a favore di altri negozi.

Poiche’ tale “rischio” e’ comunque sintomo di un “buon business”, spesso esso e’ facilmente gestibile, soprattutto quando nessun innalzamento delle commissioni viene chiesto al merchant da parte del motore.

ALTRE DINAMICHE DI FIDELIZZAZIONE – Nell’ottica di poter migliorare l’esperienza allo shopping per gli utenti nei prossimi anni si assistera’ sempre di piu’ all’introduzione di sistemi di fidelizzazione lato aggregatori di prodotti o motori di ricerca di prodotti come il “cash back” o “affiliazioni” particolari, “community” di opinioni e recensioni, un insieme di componenti che qualcuno chiama “social shopping”, una parola che e’ meglio abbandonare prima che sia scambiata per un modello di business debolissimo come quello dei “social network”.

 

Tentero’ di trattare alcune di queste dinamiche piu’ in dettaglio nei prossimi mesi. Intanto ecco i link al progetto.

Qui Bestshopping e il suo cash back.

Qui l’introduzione di criteri di Social Shopping per gli utenti iscritti. (Per un prossimo post)

Medaglie opache e tara del web, Google monopolio che uccide.

Abbiate un pò di pazienza, ma questo post è l’introduzione di uno scenario catastrofico del web nostrano. Voglio precisare che indipendentemente da quello che sto scrivendo, credo parecchio nelle iniziative locali, ma questo post descrive un problema di uno scenario molto più attuale di quanto possa sembrare, difficilmente percepibile per chi è utente di internet e non operatore.

UNA MEDAGLIA CHE FA BRILLARE – C’è una medaglia che brilla in fronte a tutti noi, è Google. E’ il motore di ricerca che usate di più, è quello migliore, è quello che vuole cambiare il mondo in meglio ed è quello che fa sembrare il Web più bello, che inventa la mail più veloce del mondo, rivoluziona le mappe on-line e moltissime altre iniziative.

Google e’ veramente una medaglia d’oro, lucida e scintillante. Per gli utenti è il miglior sito dell’anno, ogni anno. Ha il numero di utenti più elevato d’Italia e non fa trucchi ed inganni per tenersi gli utenti.

Chiunque vorrebbe avere a che fare con un’azienda di questo genere, rende migliori le cose, fa il web.

Nello stesso momento il luccichio di Google risplende su milioni di altre lattine sparse nel web. Google Adsense (e la Search come business in generale) è atterrato su tutte le pagine di quel web agonizzante del post-bolla anni 2000 e ha portato quei soldi che han permesso a tanti di rifondarsi e ricostruirsi.

Per molti, quasi per tutti, la Search di Google e Adsense sono stati il vero “boom” di internet, il vero business che giustificava i progetti virtuali decantati dal Web 2.0, dal behaviour marketing, l’idea di poter avere un business model dietro ai social network, un e-commerce 2.0 in cui tutti possono vendere e diventare merchant, il blog re-inventato per tutti, le directory di siti con PR elevato. Anche Virgilio e Libero e tutti gli altri fanno parte di questa valle illuminata dai soldi della Search.

Per chi non ha visto la Search da dentro, non è per niente facile conoscere il valore dell’apporto finanziario che può dare e chi lo conosce non ne parla per paura di svelare il grande segreto del loro successo. Se vi dico che per ogni click generato in uscita dal vostro sito potete guadagnare sempre indistintamente almeno 10 centesimi a click e se vi dico inoltre che per ogni pagina web che mostrate almeno 1 utente su 5 cliccano con certezza, allora il business è presto stimato.

Il “sempre e indistintamente” è merito di Google: Natale o data che sia, il click è garantito, metiro delle tecnologie di Google e della quantità enorme di clienti a sua disposizione. Nessuno può garantire questo approccio meglio di Google e il valore del click è al minimo di 10 centesimo di euro, per alcuni settori fino anche a cinque volte tanto. E questo è per l’Italia.

Quando milioni di pagine Web italiane hanno scoperto Adsense, piano piano hanno abbandonato i vecchi network pubblicitari per lasciare più spazio possibile a Google.

Meglio di così che si vuole? “Metto una tag singola e guadagno soldi subito, devo solo scoprire come fare ad aumentare le pagine viste e magari anche i click sugli annunci di Google e posso dedicarmi ad altro” è il pensiero comune di tutti quanti.

Durante questa fase di idilliaco guadagno dal 2000 ad oggi, ogni sito si auto ri-fonda “Web 2.0” come per dimostrare che il merito dei guadagni non e’ solo merito di Google. Era il modo per purgarsi del vecchio Web, quello brutto e senza spessore, quello dei dialer o dei layer con i banner nascosti o dei pop-up “scarica la suoneria”. Ora c’è quello nuovo, quello con il quale si dice di fare behaviour marketing, Social marketing, Social networking, Added Value, Online Gaming, Chatting Business, Foruming, Blogging.

Colpa di Google, a lui tutto questo piace. Nessun webmaster in realtà riesce a creare del vero added value. Lo scopo di tutti è accomodare Google Adsense. Nel frattempo Google diventa il numero 1 in Italia, un monopolio che controlla il 90% degli utenti italiani e il 90% delle pagine viste e la loro forma di Business.

Ho visto pagine di negozi online riempirsi di Adsense persino sul carrello della spesa, in home page, ovunque, un deprecabile web di provincia destinato presto a perdere utenti fedeli a favore di Google, pagine create apposta per mostrare adsense in tutte le forme, menù che fanno a finta di farsi cliccare sugli hotspot pubblicitari di Google che vengono scambiati per opzioni, layer nascosti per farti cliccare sulle pubblicità (se non per generare click automatici) e pagine il cui contenuto non esiste se non per un titolo da far leggere a Google e 20 annunci pubblicitari in attesa di un click da parte di un utente disperato giunto in quella pagina (allego la pagina di un sito americano per non offendere nessuno qui in Italia, ma non siamo molto lontani da quello scenario).

Ora succedono due cose.

Del Web 2.0, a Google proprio non interessa. Del “tuo” web 2.0 ovviamente, del suo sì e parecchio. Non gli interessa nemmeno il tuo “motore di ricerca”, il tuo “blog” o il tuo “sito di e-commerce” con le opinioni degli utenti. Gli interessano i tuoi spazi, ma appena quegli spazi sono fastidiosi per i suoi clienti, il tuo sito verrà declassato, Adsense apparirà di meno, se non sparirà del tutto, il tuo guadagno scende lentamente e il tuo sito torna al Web 1.0.

Visto che lo sguardo di ognuno e’ quello di massimizzare le pagine viste in favore di Google, ora che Google ha finito di massimizzare la quantità, il colosso passa a volere quantità e nessuno e’ pronto; pertanto all’attacco, morte ai siti che non sono “Added Value”.

E improvvisamente migliaia di pagine diventano “povere”, perdono Google Adsense, perdono revenue. Le stesse pagine smettono di fare Web 2.0, non c’è più il social, il blogging e il chatting. Forse non c’erano mai stati.

E ora arriva la crisi. Da un problema apparente solo di Wall Street, la crisi ora e’ magicamente apparsa nei budget del 2009 e nei costi da tagliare. Taglio dei costi, ottimizzazione dei Budget, massimizzazione dei progetti reditizzi, eliminazione delle “baggianate”. “Il Web 2.0? Meglio un banner venduto in più in Home Page”. “I social behaviour e marketing project intrapesi? Ora in stand by, intanto miglioriamo le revenues dalle mailing list”. “Devo fare il profilo degli utenti? Aspetta, prima chiama i clienti per massimizzare ogni tipo di opportunità gia’ in corso, non aggiungiamo nuovi business incerti…” le frasi più comuni degli ultimi tre mesi.

Il rovescio della medaglia di Google è il monopolio che ha creato, un monopolio di utenti e pagine viste; un flusso di revenue che scompare dalla mattina alla sera a suo piacimento in nome di una qualità chiamata “Added Value” che Google cerca nelle pagine Web ma che è a totale discrezione del colosso di Mountain View. 

Non è added value un motore di ricerca, ad esempio. Pertanto, se inventi un nuovo motore di ricerca, magari geniale per la ricerca di immagini o per il web, Google ti declassa in quanto “c’è già un motore di ricerca migliore del tuo, perchè la gente dovrebbe usare il tuo se puo’ usare Google?”.

Se fai un servizio di mail, invio messaggi, file storage remoto, la risposta di Google e’ “perchè mai la gente dovrebbe usare quel servizio? c’è già quello di Google ed e’ meglio” e vieni declassato.

UNA MEDAGLIA CHE RENDE OPACO – Con questo criterio del “Se può farlo Google, non è added value”, il Web 2.0 è praticamente destinato a inventare solo quello che Google non inventa.

Se per gli utenti Google e’ splendente, per parecchi operatori sul Web, Google e’ l’altra faccia della medaglia, è un monopolio, un monopolio che uccide, che decide le regole, che non permette alternative, che soffoca l’innovazione e la concorrenza e indebolisce il nostro mercato.

Da una parte luccica, dall’altra uccide e non ci sono alternative.

Gia’… alternative. Non ce ne sono.

UNA TARA PER LA PUBBLICITA’? NON C’E’ – Benche’ Google decida da solo le regole pubblicitarie del proprio network e stabilisce quali siano i modelli di business da promuovere (senza conoscerli nei dettagli), non ci sarebbero problemi se si venisse rifiutati e ci fossero delle alternative. Anche per la Televisione, il mio spot non viene accettato in prime time per motivi di “brand” e “appealing”, pertanto posso pagare anche di piu’ di Telecom, ma e’ probabile che il mio spazio sia dopo le 22 o prima dell 19, ma non alle 20.00 dopo Gerri Scotti. E’ una sorta di regolamentazione sulla qualita’ decisa dai network televisivi. Ma per la televisione la “tara” di qualita’ degli spot e’ controllata da associazioni anche indipendenti e comunque il mercato e’ diviso in 2 (se non gia’ in 3 oramai da noi) e un monopolio non esiste.

La “tara” dei siti che invece stabilisce Google e’ insindacabile e tendende alla concorrenza sleale. C’e’ poco da fare, e’ un monopolio e le sue decisione sono troppo influenti per il mercato da non potersi muovere come vuole. Eppure lo fa.

Perche’ se per le Televisioni o per la Carta Stampata, la “tara” della qualita’ e’ controllata, per il web non c’e’ nessun controllo? In entrambi i casi e’ uno spot commerciale, che cosa c’e’ di diverso? La risposta e’ semplice. Il mercato e’ debole, troppo giovane e troppo piccolo; non produce standard perche’ c’e’ troppo poco business e non giustifica associazioni private indipendenti per il controllo dell’etica. Il Monopolio non lo fa crescere.

Con questo e con la crisi, è il Web 2.0 a defungere. E non è un bene. Benchè possa sembrare “etico” che Google elimini i siti senza “Added Value”, in realtà la decisione è insindacabile da parte di Google e spesso discutibile (vedi il penalizzare un “motore di ricerca”) e sta bloccando un Web fatto di progetti, iniziative, attività, business che produce economia e innovazione.

Se Internet fosse più maturo, probabilmente non saremmo in questa situazione. Ma si sa, e’ l’Italia, il paese in cui si spende online nove volte meno di un inglese, quattro volte meno di uno francese e di uno tedesco.

Centrali nucleari, niente Macintosh!

L’ultimo aggiornamento di Apple Mac Os Leopard alla 10.5.6 ha creato non pochi problemi ai propri utenti.

Generalmente le operazioni di aggiornamento di Apple sono indolori e ben apprezzata, ma nell’ultima update del firmware dei Macbook, per qualche utente è arrivata una … schermata blu e un computer bloccato.

Curioso leggere che nella licenza d’uso del Mac OS è vietato l’uso delle applicazioni Apple nei casi in cui un failure del software può generare… morte. 

THE APPLE SOFTWARE IS NOT INTENDED FOR USE IN THE OPERATION OF NUCLEAR FACILITIES, AIRCRAFT NAVIGATION OR COMMUNICATION SYSTEMS, AIR TRAFFIC CONTROL SYSTEMS, LIFE SUPPORT MACHINES OR OTHER EQUIPMENT IN WHICH THE FAILURE OF THE APPLE SOFTWARE COULD LEAD TO DEATH, PERSONAL INJURY, OR SEVERE PHYSICAL OR ENVIRONMENTAL DAMAGE.

Una domanda mi sorge spontanea; che cosa si usa allora? Windows?

Esperimenti nella Serp di Google, Post di Blog e Forum promossi troppo?

Mentre il social networking, le cloud application e le community wiki diventano sempre più tema di discussione e di analisi, la search, intesa come il fatto di dare risultati di ricerca dopo avere immesso una qualunque parola chiave, sembra venire messa da parte come se fosse un’applicazione “data per assoldata” e “matura”.

Anni fa Yahoo! fece più o meno la stessa considerazione.

ESPERIMENTI NELLA SERP DI GOOGLE SEMPRE PIù POPOLARI – Per Google non sembra proprio così, invece. Ci sono alcuni esperimenti che già avrete notato nella SERP degni di qualche commento, e ci sono alcune osservazioni complessive sull’approccio alla qualità di Blog e Forum da considerare più approfonditamente.

Avrete notato che su alcune pagine di ricerca di Google appare ora la possibilità di eliminare un risultato di ricerca dalla propria Serp, di indicare a Google che dovrebbe occupare una posizione più elevata e di lasciare commenti come se ci si trovasse in un wiki (la piattaforma stile wikipedia per intenderci).

Tutto questo verrà pesato da Google nelle prossime settimane per stabilire se le informazioni raccolte devono rimanere a livello di browser, di utente, o di universo se fosse il caso di aggregarle e renderle di dominio pubblico. Dopo tutto la licenza che si accetta con Google permette tutto questo.

Se la search siamo noi è una delle domande a cui Google sembra dare risposta con questo esperimento.

TROPPI BLOG E TROPPI FORUM PROMOSSI DA GOOGLE – Ma nello stesso tempo c’è un fattore organico di qualità nei risultati di ricerca che a mio avviso dovrà essere mitigato da parte di Google, se non modificato. C’è la tendenza di promuovere oltre modo i messaggi dei forum, i post dei blog e le pagine di commento sui siti web, piuttosto di promuovere siti ufficiali, pagine di specifiche tecniche anche vecchie o semplicemente descrizione di servizi o prodotti. C’è la tendenza a promuovere la “freschezza” dei risultati dei post alle pagine “vecchie” dei siti più commerciali e autoritari.

Non è facilmente replicabile, ma se cadete in una di queste ricerche, vi assicuro che la vostra “experience” di ricerca diventerà pessima, anche perchè la qualità grafica e la chiarezza dei forum è spesso minima e quasi sempre il post non è immeditamente identificabile. Per i blog, bè, è chiaro che se il blog è generico, intorno al vostro post da leggere troverete parecchie informazioni e collegamenti di altri argomenti poco interessanti e avrete pertanto la sensazione di essere in un sito poco rilevante e comunque poco specifico sull’argomento che cercate.

Qualcuno classifica anche gli stessi post dicendo che un messaggio con più risposte verrà promosso in modo migliore da parte di Google. Google non dice nulla al proposito, per la cronaca. Questo tipo di classificazione è come stabilire che “più si parla e più è rilevante il messaggio legato all’oggetto della discussione”, ma James Surowiecki dice nel suo libro “Wisdom of Crowds” che quantità significa qualità solo in determinate e chiare condizioni spesso non presenti nelle discussioni e nei gruppi di persone “generici” (vedi qui per alcune considerazioni sui social network). Pertanto la probabilità che un post con parecchi commenti sia di minor qualità di un post senza risposte è elevata se pensiamo ad Internet e in questo momento tale fattore sembrerebbe essere ignorato (per questo motivo ritengo che Google non possa pesare i post in base al semplice numero di risposte se prima non trova un modo di classificarne l’utenza).

Se la search saremo noi, allora presto Google potrà stabilire quando un loro esperimento starà dando buoni risultati e risolvere velocemente i degradi di qualità dei risultati come quello dell’esagerata promozione dei post dei blog e dei post dei forum nelle pagine di ricerca di alcune situazioni odierne. Alcune analisi saranno sempre e comunque di Google perchè sono i numeri a dargli le risposte, però uno di quei numeri da oggi siamo noi.

Che cosa e’ Facebook? Social network e advertising insieme funziona?

Facebook, il social network fondato nel 2004 dal allora diciannovenne Zuckerbergper per facilitare gli incontri tra studenti, e’ oggi sicuramente un successo in qualunque modo lo si guardi. Usability, immediatezza, velocita’, numero di iscritti sono componenti facilmente riconoscibili; amici, conoscenti, colleghi sono il motore del successo.

FACEBOOK, MYSPACE E QUELLI DI GOOGLE – Il successo di Facebook e’ quello di portare on-line dei social network gia’ esistenti off-line, farli interagire ed espanderli. Questa e’ la chiave di ogni social network che voglia funzionare bene: mettere amici a interagire tra di loro in un modo divertente e magari “nuovo”.

Il successo di Facebook e’ quello di portare on-line dei social network gia’ esistenti off-line, farli interagire ed espanderli.

Tre anni dopo la creazione del social network, Microsoft compro’ una quota minima di Facebook facendo valere quest’ultimo 15 miliardi di dollari per un semplice calcolo proporzionale.

Ma indipendentemente dal valore del divertimento e dell’interazione sociale di Facebook, settimana scorsa Google annuncia di voler chiudere Lively a fine anno. Ne parlavo poco fa, l’esperimento social di Google e’ rimasto deserto e Orkut, un altro sito di social networking comperato di Google, continua a rimanere un evento locale da sempre con il 61% di utenti sotto ai 25 anni.

MySpace anticipa il successo di Facebook, diventa la societa’ piu’ valorizzata del pacchetto di Murdoch, firma una accordo di circa 900 milioni di dollari di pubblicita’ con Google e schizza alle stelle come il “futuro” dei social network. Qualcuno lo addita come “una rivoluzione”, altre presentazioni parlano di 200 milioni di utenti che lo usano, ma io leggeri 190 milioni di “crap pages”, un ROI per chi pubblicizza che rasenta lo spam e un prodotto veramente difficile da mantenere nei proprio investimenti (togliereste myspace o adwords dalle vostre campagne pubblicitarie in situazione di tagli di budget?).

I SOCIAL NETWORK SONO DIFFICILI DA MONETIZZARE – Facebook ha gli stessi problemi di tutti i social network. E’ difficilissimo da monetizzare, offre opportunita’ per sperimentare nuovi sistemi di pubblicita’ e nuovi servizi di indagine, ma spesso questi non vanno a termine per la stessa complessita’ della community su cui si fa leva, un gruppo di amici, che cerca solo divertimento, scambia foto e combatte in bande virtuali giusto per “vedere che succede” e nuovi utenti che si iscrivono perche’ “non puoi non esserci”, quasi uno status che rasenta quello di una moda e di una novita’ di provare.

Il modello pubblicitario di Facebook e’ altrettanto complesso. In parte e’ il classico banner da cliccare o da guardare. “Banale!”, direte. Vero, ma se fosse stato Google a comperare questi spazi come fu per Myspace ora non ci sarebbero discussioni. Ma di marketplace difficili Google ne ha gia’ due, Myspace e Youtube. Anche Ballmer, che ha l’1,6%, con il suo Adcenter se ne sta lontano dalle pagine di Facebook.

Poi ci sono le “sponsorizzazioni” in varie forme. In Myspace i brand comperano spazi, pagine o canali per “tentare” di avvicinarsi alle teen-agers senza soldi che riempono le pagine di musica rock, punk, che scrivono di voler fare le game designer, ma intanto non fanno convertire nessuno dei banner presenti sulle loro pagine. In Facebook, nei gruppi in cui ci si puo’ iscrivere, alcuni “amici” sono “amici commerciali”, inseriscono link o eventi che portano a pubblicita’ o eventi a scopo commerciale, ti parlano di un prodotto o di una iniziativa. Se sei nel gruppo dei fan di Fantascienza Libri e Film, e’ probabile che un domani la tua bacheca si popoli di un link di questo tipo.

FACEBOOK E I PROBLEMI DI QUALITA’ DEI GRUPPI – Ma il punto non e’ come ti porto a cliccare, il punto e’ come un ambiente di scambio foto, link tra amici e chat possa diventare interessante per messaggi pubblicitari. Non puo’; se c’e’ divertimento, non c’e’ Advertising che tenga e gia’ una suoneria, un pezzo di film e un invito a guerra tra bande non funziona perche’ forzatamente fuori tema con la community che c’e’ intorno.

Poi ci sono i gruppi. Quando Zuckerberg fondo’ il social bookmarking di studenti volle fare in modo che le persone che partecipassero fossero in qualche modo “qualificate“. Un’ottima idea tale da fare iscrivere pertanto solo quelli che avevano una mail “.edu”. Poi ovviamente le esigenze di business hanno fatto cambiare il modello e oggi chiunque puo’ entrare in Facebook.

Quando Zuckerberg fondo’ il social bookmarking di studenti volle fare in modo che le persone che partecipassero fossero in qualche modo “qualificate“, ora non e’ piu’ cosi’.

Il problema e’ che gli utenti che creano Gruppi di varia specializzazione non hanno possibilita’ di controllare gli utenti che aderiscono. Ovvero, in realta’ l’invito e’ personale, ma il sistema di Facebook e’ spam oriented ovvero “clicca qui per mandarlo a tutti i tuoi amici della lista” e non “scegli attentamente a quali amici vuoi proporre questo esclusivo gruppo di discussione e configura la loro partecipazione”. Inoltre piu’ utenti ci sono e piu’ si associa il successo a tale gruppo e pertanto il sistema non controlla assolutamente la qualita’ degli iscritti.

Pertanto, ad esempio, un gruppo di professionisti i cui membri partecipano alla discussione sulla pubblicita’ on-line dello IAB solo dopo 2 giorni ricevono un messaggio che pubblicizza penne, agende e calendari in regalo allo stand di uno dei membri iscritti.

Un altro gruppo per la discussione sui “diritti d’autore dei libri in formato digitale distribuiti in Internet” riceve poco dopo la sua fondazione un link dal fondatore che rimanda al proprio libro da comperare.

E’ ovvio che in questo modo il valore dei gruppi viene meno, la profilazione e’ semplicemente casuale e la pubblicita’ non puo’ che essere un esperimento con poco ritorno e alla fine tra i metodo per produrre revenue per Facebook vediamo apparire link dello stesso colore del menu per tentare di fartelo cliccare con maggiore probabilita’.

Misleading Facebook Advertising.

E se quando anche il costo a click e’ molto piu’ alto di qualunque altro network, allora quanto puo’ resistere il modello pubblicitario di Facebook?

Se Facebook riuscisse a permettere di gestire la qualita’ dei gruppi che si creano, senza paura di perdere utenti o pagine viste, allora targhetizzare queste persone con questionari, spot e messaggi commerciali puo’ diventare molto profittevole e interessante, ma per ora vedo un grande social network da trattare come un grande forum, un blog o un sito di bookmarking, con poco ROI e tanti esperimenti di poca durata e i 15 miliardi di bolla-valore presto ridotti di parecchie volte.

uSwitch, un arbitraggiatore d’oro compra Kelkoo

Alla fine Yahoo! ce l’ha fatta, ha venduto Kelkoo, sovrastimato al momento dell’acquisizione (piu’ di 450 milioni di euro) e venduto per 100 milioni oggi agli ex manager di uSwitch, un arbitraggiatore dal bilancio d’oro, societa’ inglese che compra e rivende servizi, migliorandone la vendibilita’, l’offerta e il confronto.

ARBITRAGGIATORE D’ORO E PAPA’ ESPERTO – uSwitch e’ della Scripts Networks Interactive (NYSE:SSP), quelli di Shopzilla, quelli di BizRate, gente esperta che e’ da parecchio sul mercato dello shopping con idee nuove e ben fatte; guarda caso ne parlavo qui poco tempo fa a seguito di un ottimo quarter e per dare merito a Shopzilla di essere uno dei pochi shopping comparison ad attraversare la tempesta degli ultimi mesi nel modo migliore (non come Shopping.com di eBay ad esempio).

Shopzilla e’ un vero e proprio shopping comparison di qualita’, produce offerte fatte per essere confrontate e non modifica la pagina dei risultati di ricerca per mostrare quello che paga di piu’ per primo, come invece fa Kelkoo.

Benche’ uSwitch e Shopzilla siano aziende ben distanti (fiscalmente e fisicamente, papa’ a parte), e’ probabile che i nuovi amministratori di Kelkoo vogliano portare un pò della loro esperienza in casa Chappaz, l’ex-CEO di Kelkoo.

KELKOO NUMERO UNO IN EUROPA ANCORA PER QUANTO? – Kelkoo e’ il numero uno per lo shopping comparison in Europa, ma negli ultimi anni un prodotto obsoleto e un modello di business qualitativamente discutibile lo hanno offuscato e lasciato andare alla deriva. Complice Google che spesso toglie traffico a chi da’ fastidio e quindi anche a Kelkoo in questi anni, altri motori di confronto ne hanno approfittato e creato marketplace equivalmente e piu’ promettenti, come lo stesso Ciao.com, acquistato poi da Microsoft poco tempo fa.

AUTONOMIA PER KELKOO E TRAFFICO PAGATO A YAHOO! – Ora che cosa succeda tra Yahoo! e Kelkoo sara’ da vedere. Il 30% del traffico e’ di Yahoo! e Kelkoo praticamente non lo paga. E’ probabile che Yahoo! chieda un revenue share su quanto Kelkoo produce grazie a Yahoo!. Inoltre, a uSwitch non interessa solo lo Shopping Comparison ed e’ probabile che voglia introdurre anche nuove linee di business di confronto servizio e non solo confronto prodotti.

Chappaz assicura che la societa’ Kelkoo crescera’ in autonomia, ma questa e’ la solita frase che si dice in fase di vendita/acquisizione, poi e’ solo questione di quanto veloce si voglia integrare le due societa’.

Eppure Kelkoo sta facendo una mossa giusta, il cash back. Il cash-back e’ quel modo di risparmiare comprando prodotti, perche’ parte del prezzo te lo rende indietro il negozio. Con capitali nuovi da parte di uSwitch, e’ possibile che tale attivita’ divenga veramente un buon tornaconto e diventare un nuovo Kelkoo. Per ora per SSP nessun entusiasmo e nessuna press release ufficiale e titolo a -14% oggi, ma per altri motivi che purtroppo conosciamo.

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