Mainly Internet business, but also life mysteries and videogames

Categoria: Principale (Pagina 3 di 6)

Di tutto e di piu’ sul web e su di me, ma niente di specifico.

un iPad inutile

Ho preso un iPad. Ovviamente.

Questa enorme videata digitale mi invita ad utilizzarlo per quello che non facevo se non con un Pc, come ad esempio scrivere documenti direttamente, inviare mail e allegati e scrivere questo messaggio di blog direttamente dall’applicazione di wordpress per iPad.

Forse ora il mio iPhone farà finalmente quello che avrebbe dovuto fare da subito… Ovvero il telefono! Prima dell’ipad, il mio iPhone faceva tutto tranne che il telefono e i suoi gigabyte erano sempre insufficienti.

Ora finalmente farà il telefono, forse non giocherà più come prima, giocherà meno, tutte funzioni che ora preferirei fare su di un device grande il doppio, molto più veloce e soprattutto che si USA come un pianoforte!

Ah, il titolo del blog? Bè un suggerimento di un mio amico invidioso 🙂

Alla prossima per questioni più serie.

Facebook 250 milioni di utenti, what’s next?

250 milioni è il numero di utenti registrati di Facebook. La società di San Francisco vale oggi circa 10 miliardi di dollari, valore calcolato dopo la recente raccolta di 200 milioni di dollari dalla Digital Sky Technologies russa.

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FACEBOOK VALE 10 MILIARDI DI DOLLARI – 10 miliardi di dollari (10 Billions USD) per una società che prevede di fatturare circa 500 milioni di dollari nel 2009, 20 volte meno di quanto si è auto valutata, e il CEO Mark Zuckerberg prevede “billions in revenues” entro cinque anni da oggi, quindi una crescita di almeno 4 volte il fatturato.

Chiunque a questo punto dovrebbe volere una IPO di Facebook.

Il valore della società è indirettamente confermato da Facebook stessa che nel tentativo di acquistare Twitter per 500 milioni di dollari aveva valutato se stessa per circa 8b$ (8 USD Billions), 2 in meno del recente calcolo, ma la Twitter non riteneva corretto nessun valore oltre i 4b$.

Lo spaccato delle Revenues di Facebook H1 2009  ci dice che:

  • 125 milioni di dollari dai cobrand
  • 150 milioni dall’accordo con Microsoft (adcenter)
  • 75 milioni dai servizi
  • 200 milioni dal content match proprietario (gli ads testuali gestiti da Facebook direttamente)

ALLA CONQUISTA (COPIA) DI TWITTER – Dopo il mancato acquisto di Twitter, Facebook sta velocemente clonando tutte le opzioni che rendono Twitter uno strumento unico ad oggi, soprattutto le molteplici capacità che Twitter offre alle aziende e che invece mancano in Facebook, meno B2B oriented, sperando di limitare la crescita del primo tra le Fortune 500 aziende.

Se spacchiamo in 2 le revenue di Facebook, 125+200 sono revenues da Pubblicità gestita da Facebook stessa, 150 dal deal con MS e 75 dai servizi, il “paying user”. In percentuale, 13% dagli utenti, 59% da se stesso e 28% da Microsoft. Deludente il 13% dagli Utenti, ma si sa che quello che conta è il banner o il text link.

Twitter, molto piu’ giovane nel revenue model, con un decimo degli utenti di Facebook di oggi previsti per fine 2009, ad oggi ha un’unica revenue stream. Sorpresa, Microsoft.

Parecchi servizi B2B a pagamento (addon) verranno introdotti in Twitter, ma ad oggi la società guadagna solo dall’accordo con Microsoft con un deal a Revenue Shares tale da generare per l’H1 del 2009 circa 500,000$, ovvero 0.5 milioni di dollari, 300 volte meno dell’equivalente accordo di Ms in Facebook. Visto che il prodotto Microsoft si basa su di un bid medio identico per i due market place, la differenza è sicuramente nel diverso numero di utenti (1 a 10) e soprattutto nel diverso modello di advertising (piu’ invasivo in Facebook, ancora sperimentale in Twitter tale da generare in Facebook 30 click paganti per ogni utente di Twitter, il che è abbastanza ovvio se si osservano i due tipi di portali).

I forecast delle due aziende sono ovviamente molto aggressivi, ma indubbio è che il 75% delle loro revenues sarà Text advertising e Cobrand anche tra 5 anni, di cui oggi il 30% da un partner esterno come Microsoft.

WHAT’S NEXT ? – Quanto è appetitoso un servizio come Facebook?

E’ la stessa Microsoft a non voler perdere l’opportunità di scalare il servizio di Facebook nel caso si ripetesse una seconda MySpace (con il senno di poi direi fortunatamente evitato per Microsoft). Ed è per lo stesso Zuckerberg di Facebook sperare che prima o poi qualcuno voglia far valere davvero 10$b un’acquisizione da parte di qualche “gigante”. E’ lo stesso CEO di Facebook che dichiara di avere già rifiutato parecchie PA, ma per quanto? Dopotutto quei 250 milioni di utenti fanno solo il 13% delle revenues, mentre il resto è ADS, un business che altri sanno fare molto bene. Inoltre quei 250 milioni di utenti potrebbero abbracciare facilmente una servizio mail come Hotmail, Gmail o Yahoo mail se solo l’avessero a disposizione, mentre ad oggi Facebook è “solo” una grande piattaforma “social”.

MAIL REINVENTED BY GOOGLE (o Yahoo?) – Con Google Wave, Ancora una volta, è lo stesso Google a ricordare a tutti quanti che la killer application è la mail e niente altro (search a parte). Non è gTalk, non una chat migliore, non è gChat, uno scambio foto o un social bookmarking. Però non e’ neanche gMail come la conosciamo oggi.

La killer application del futuro e’ la mail con le funzioni di social sharing integrate […] — e tutto alla velocità di Google.

La killer application del futuro e’ la mail con le funzioni di social sharing integrate, dove una piattaforma come Facebook e una come gMail sono completamente integrate, dove chattare e mandare mail sono la stessa cosa, dove un profilo o un messaggio sono accessibili nello stesso modo, dove un feed e una discussione sono la stessa cosa, le foto si draggano, la musica si condivide insieme ai propri amici — e tutto alla velocità di Google.

Questo ci sta dicendo Google. Il futuro della mail e’ la mail. Perche’ chattare fuori dalla mail? Perche’ un profilo se non e’ nella mia mail? Perche’ non posso taggarti, mandare e vedere foto e amici e gruppi di fan direttamente dalla mia gMail?

Con questa prospettiva, Microsoft e Yahoo devono pensare a come trasformare se stessi nella stessa direzione e non disperdere i servizi e farli crescere da soli. Infatti e’ Yahoo! 360 che chiude e migra rifatto dentro Yahoo! mail, ma ancora come molte limitazioni e preistoriche opzioni di condivisioni (ad esempio lo scambio foto e’ un link a flickr.com e non una vera integrazione ajax, ma qualcosa si muove di certo in Yahoo! mail; basta andare a vedere che cosa fa Xoopit appena acquistata dal colosso di Sunnyvale).

Microsoft risploverebbe un po’ di successo per la sua mail — che tra i tre colossi è come sempre quella meno innovativa e senza idee chiare  — e parecchie impression per Adcenter con una community stile Facebook, magari riciclarne la piattaforma Ajax per integrarla sui portali MSN un pò troppo pesantini in certe cose. Search a parte è l’acquisizione che potrebbe interessare di più.

Questo Facebook da solo farà sempre piu’ gola, ma 250 milioni di utenti e quelle impression sono un valore unico per chi ha mail e ha parecchi clienti sul content advertising e chi meglio di Google, Yahoo! o Microsoft sanno farlo? Facebook stessa? E’ possibile, se si arroccherà in difesa come ha fatto Yahoo! per la Search.

Cloud Computing: un chip per Apple iTunes?

Originalmente nati come HaaS “hardware as a service” e SaaS “Software as a Service”, il cloud computing e’ la convergenza delle architetture hardware e software che permettono di elaborare dati, raccogliere dati, dare dati in modo distribuito.

In parove povere, Clound Computing e’ il servizio che viene distribuito in reti locali o mondiali per migliorarne l’utilizzo da parte degli utenti. Nato nel 1999, oggi l’esempio piu’ classico e’ la Search di Google: il servizio e’ il piu’ vicino possibile alla tua adsl per massimizzare la sensazione di velocita’ del servizio.

cloud-computing

E’ normale infatti imputare al servizio un disservizio della rete che ci collega ad esso. Tale comportamento dovuto alla latenza di una rete o alle applicazioni che usiamo per navigare spesso trasferiscono al servizio la sensazione di poverta’ dell’offerta. E’ facile, insomma, dare la colpa al servizio finale anche quando in realta’ esso non ha nessun problema, ma lo ha qualcosa tra noi e loro. Una pagina web che si blocca e la colpa e’ del sito web, quando magari e’ un plugin di Flash o Java malfunzionante o la rete di Alice adsl lenta a risolvere gli IP per collegarsi.

Per questo il Clound Computing trasporta il piu’ vicino possibile all’utente il servizio desiderato. IBM, Microsoft, Google con il superbo progetto Google App Engine, Amazon nomi sulla bocca di tutti. Con Amazon, che per prima tenta di portare il servizio a piu’ utenti possibili, attraverso le AWS (il servizio a pagamento di Amazon per gli sviluppatori) e’ possibile dare anche una propria FOTO e chiedere ad amazon di darla agli internauti attraverso il loro servizio di cloud computing. Se un giapponese visualizzera’ la vostra foto, la ricevera’ da server in giappone, se e’ un tedesco, da server di Francoforte. Costoso per i piccoli, efficace per i grandi.

IL CLOUD COMPUTING DI APPLE – Quando Apple presento’ AppStore, il servizio di iTunes per distribuire le applicazioni di iPhone, una riga tra le slide del keynote di Jobs recitava “Fastest Delivery Worldwide”; questa riga sottolineava come AppStore avrebbe massicciamente utilizzato una tecnlogia Cloud Computing per distribuire le applicazioni iPhone nel mondo. Questo significa che quando siete su iTunes di un PC o su AppStore direttamente dall’iPhone e scaricate una applicazione, questa sara’ trasferita nel tempo minore possibile.

Il fatto che le applicazioni di iPhone (e anche la musica di iTunes) vi vengano recapitate alla massima velocita’ e’ fondamentale per associare al servizio la sensazione di “Velocita’”. E’ importante per il successo dello stesso.

Per questo Apple fa uso di tecnologia Software e Hardware as a Service per iTunes.

La disponibilita’ di banda larga permettera’ a questi servizi di diventare sempre di piu’ utilizzati e utilizzabili. Nei videogames, sono state annunciate importanti operazioni di digital download. Benche’ nel 2009 e’ previsto che solo il 2% del mercato del Gaming sara’ venduto tramite digital download, la distribuzione di applicazioni e media tramite reti sara’ sempre piu’ attuale.

Quando Apple e Google annunciano di voler costruire proprie farm, la notizia anni fa non associava immediatamente alla necessita’ di poter deliverare velocemente non solo pagine web, ma anche applicazioni e musica.

NON TUTTO E’ MUSICA – Parallelamente alle applicazioni e alla musica di iTunes, Apple sta giocando un’altra delle partite secondo lo stile di “Jobs”. Con l’esperienza fatta in Disney-Pixar e con le porte (quasi) spalancate dopo il successo di iTunes, e’ facile per Jobs ipotizzare un business plan che coinvolga le major cinematografiche per la distribuzione dei film e delle serie TV anche su iTunes. Be’ lo fa gia’, ovviamente. In iTunes USA e’ stato appena annunciata la disponibilita’ di film e serie in formato HD (High Definition).

Distribuire film (in HD) non e’ proprio come distribuire file audio o applicazioni iPhone di 10 megabyte. E’ vero che ci sono applicazioni di 100 megabyte gia’ su iTunes, ma la media e’ di 10 megabyte.

Quando si parla di “acquistare” una serie TV in HD da iTunes, vuole dire accedere da 300 a 900 megabyte di dati da scaricare. Se volete scaricare un film in HD magari con audio 5 canali, si parla di almeno 3 o4 gigabyte. Se per la musica bastava vincere lo scetticismo delle major, per i film c’e’ un problema di delivery dei media.

TECNOLOGIE HARDWARE PROPRIETARIE PER LA DISTRIBUZIONE DI SOFTWARE – E’ OnLive, il servizio di distribuzione dei videogiochi online che si annuncia come “il futuro di internet” e sostenuta addirittura da Steven Spielberg, la prima azienda che vuole trasferire dati (videogiochi in questo caso) in una nuova modalita’ composta da tecnologie di compressione proprietarie e streaming parziale dei giochi.

Forse per questo Apple, da anni avida accentratrice di tutti i nuovi film in uscita al formato proprietario Quicktime MP4 e recentemente indaffarata ad assumere ingegneri AMD, puo’ voler pensare ad una propria tecnologia di compressione hardware che permetterebbe di distribuire applicazioni di megabyte o film di gigabyte in meta’ tempo, di diventare la piu’ grande scatola di distribuzione digitale e di aumentare il valore dei propri macbook e desktop (o iPhone e media TV vari che si inventera’) con il semplice fatto che possono vedere i film… meglio e piu’ velocemente cosi’ come iPod fu per la musica.

In questu blög senza la lüüs: Cofanetto 40 Pass Corriere della Sera

Visto che sono assente da queste pagine da qualche settimana (ma ci sono buone ragioni legate all’e-commerce di cui parlero’ presto), ne approfitto per lasciare nel Web due righe di commento riguardo ad un’ottima iniziativa di Davide Van De Sfroos, cantautore lombardo, che da qualche lunedi’ allega al Corriere della Sera un CD audio con le sue canzoni per un’opera audio e video da collezione.

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Davide e’ uno dei migliori.

Questa con il Corriere e’ indubbiamente un’ottima iniziativa, ma sono sicuro che per i fan da sempre di Davide l’opera non e’ apprezzata in tutti i suoi aspetti purtroppo, anzi, e’ un dispiacere, non per’ il packaging o l’idea che e’ perfetta, ma per un elemento fondamentale … l’audio e la qualita’ delle tracce che e’ … assai deludente, cupo e rimbomba come registrato da dietro chi suonasse, tanto da non poterlo ascoltare (si preferisce di gran lunga gli originali o i “laiv”) una volta che si sono vissuti gli anni di concerti e delle canzoni del cantautore comasco.

Inoltre, tutte le canzoni sono cantate davanti ad una piccola platea e spesso arrangiate piu’ lentamente  degli originali peggiorando in alcuni contesti il tono e l’enfasi degli originali, l’ironia e la poesia.

Un must per chi ama Davide, ma spesso troppo groove in questa edizione qualitativamente “deludente”. Se vi piace, andate a sentire dal vivo i “veri” Davide Van De Sfroos.

Edit: emozionante il DVD con il concerto di Milano.

Android: Donut, Chesscake, hamburgar che sia, il biz di google è… ancora la search!

Android 1.5 è stato presentato da Google e ora la sfida con iPhone e Windows Mobile è ufficialmente lanciata. Secondo Google ci sono il triplo di utenti di cellulari al mondo (3,2 miliardi) rispetto agli utenti Internet.

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Benchè la previsione di vendita dei cellulari che utilizzano Android (i cosiddetti gPhone) è stata parecchio conservativa (8 milioni di gphone previsti nel 2009 contro i 23,9 di Apple iPhone), le news dell’annuncio riportano il dato percentuale di crescita (900% di gphone rispetto al 70% di Apple iPhone), dimenticando che gphone parte da zero e che da zero a 9 unità vendute è già un +900%.

 

DONUT, CHESSCAKE, HAMBURGAR CHE SIA, IL BIZ DI ANDROID E’ NELLA SEARCH – Ma Google prepara già la sua battaglia successiva. Con la stessa partita, Android 2.0 “Donut” può supportare schermi video molto più ampi e compatibili con i 10″ pollici, ad esempio, dei netbook.

E’ chiaro che più device Google possieda e più utenti utilizzeranno le applicazioni Google e tra tutte, la Search, l’unica che ad oggi è la fonte di revenue per il colosso di Mountain View.

Che sia un gphone o un netbook, gmail, calendar, google maps, voice search, web search, tutte quante per Google dovranno e vorranno solo far fare click sui risultati di ricerca, locali si spera. Per questo Google sta investendo parecchio per espandere le proprie attività sulla Local Search (quella che, ad esempio, in Milano vi permette di trovare luoghi e destinazioni commerciali vicino a voi). Per Google le revenues del 2008 sono state del 97% provenienti dalla Search a pagamento (e il 3% è licenza di tecnologia e server).

 

APPLE ITUNES LEADER NEL DOWNLOAD A PAGAMENTO – Quando si guarda Apple invece, si scopre che iTunes è stata la startup più veloce al mondo a rientrare a break even (già nel 2007 1,9bn$ al 30% di margine, dati Billboard US e 4 miliardi di canzoni vendute), potersi pagare lo sviluppo di iApps, lo store online delle applicazioni per iPhone, distribuire musica e applicazioni in cloud computing e diventare il numero 1 al mondo in fatto di applicazioni vendute per telefonini. Non da meno, è il negozio di musica più redditizzio al mondo, più di Amazon o di qualsiasi prodotto Microsoft, Zune compreso.

Insomma, Apple fa già soldi dal solo iPhone e iTunes ha già sfornato più di un miliardo di applicazioni, di cui un 15% pagate, soldi per Apple, ma anche soldi per gli sviluppatori.

 

IL SUCCESSO DIPENDE DAL RAPPORTO CON GLI SVILUPPATORI – Sono gli stessi sviluppatori che commentano il successo di iTunes e di iPhone annunciando di “fare finalmente soldi” da una applicazione per cellulari, dopo numerosi tentativi falliti per Symbian o RIM. Non a caso iTunes sforna applicazioni nuove ogni giorno, ci sono i titoli più famosi di ogni casa, Electronics Arts, Namco, Filemaker, etc mentre Android.com sembra una pagina “under construction” senza applicazioni in vendita.

Insomma, il successo di iPhone non è solo nell’avere rivoluzionato la piattaforma dei mobile, ma di avere re-inventato il successo sulla disponibilità e facilità di installazione e sviluppo di applicazioni gratuite e commerciali. Apple ha consolidato il rapporto con i developers in questi anni, grazie alla rivoluzione Intel/Unix di MacOS da essere stata definita “una buona iniziativa” da parte di Ballmer stesso.

Vi ricordate quando iPhone fu introdotto, Nokia tentò di dissuaderne l’acquisto mostrando i problemi d’utilizzo della tastiera virtuale del prodotto di Apple? Bè, sappiate che quella, in grado di seguire la rotazione del telefonino, è una delle feature di “punta” di Android 1.5 di Google.

 

LA QUALITà ALLA BASE DEL PIACERE D’UTILIZZO – Infine, c’è un dettaglio di qualità su cui vale la pena spendere due parole. Il prodotto di Apple e le patent che lo proteggono permetto all’iPhone di avere dettagli e animazioni “fisiche” piacevoli. Ad esempio, le applicazioni si aprono con un effetto zoom (e nello stesso modo si chiudono), le pagine alla fine di una sequenza sbattono contro al margine del telefonino se si tenta di farle passare alla pagina successiva, le foto letteralmente “volano” nel cestino o nella posta se spostate e le icone sono tutte ombreggiate e perfettamente disegnate. E’ uno stile che Apple porta con sè da sempre; Android è il prodotto che invece nasce su carattere cosmopolita, meno dettagliato, ma più aperto, ma per questo gli manca un tocco di classe e di piacevole usability.

Apple controlla la qualità del prodotto con rigide regole di programmazione e distribuzione. Una delle questioni per cui le applicazioni Apple non possono produrre processi in background è per evitare che una applicazione programmata male produca un processo zombie che rimanga appeso e consumi calcolo macchina e pertanto vi faccia durare un iPhone metà delle ore. A chi dareste la colpa se il vostro iPhone facesse metà della durata di quanto scritto nelle specifiche? Ad Apple sicuramente. Per questo Apple vuole maniacalmente controllare lo sviluppo del suo device. Qualità significa successo. 

Se Android, che è basato su Linux 2.6, diventerà un open source oppure sarà dato in licenza a più case, per Google il controllo della qualità sarà uno dei problemi più grandi. E’ vero che le applicazioni di Google sono fatte da Google e lo sviluppo delle specifiche di Android è anche controllato dal consorzio creato da Google chiamato The Open Handset Alliance, ma dare Android a Sony Ericsson, Motorola, HTC, significa permette lo sviluppo da terzi e da terzi di terzi e generalmente i consorzi permettono l’adozione di standard ma non il controllo della qualità dello sviluppo. Dopo quanti mesi il vostro Windows sembra andare metà della velocità del primo giorno? Se succedesse questo anche per Android, non ci sarà battaglia.

USA +10% Online Advertising, -17% Carta Stampata; Video Ads boo!

IAB riporta che lo spending online per il 2008 (US) è cresciuto del 10,6% per un totale di 23,4 miliardi di dollari, mentre la Newspaper Association of America riporta un calo del 17% nella pubblicità raccolta dalla carta stampata (37,85 milardi di dollari), ma evidenzia un calo della stessa raccolta da questi ultimi per l’online pari all’1,8%.

Quindi una crescita dell’online non grazie alla raccolta della carta stampata per l’online. Anche se quel 10% di crescita totale dell’online è lontano dal 26% visto nel 2007, è comunque un segnale di tranquillità per l’online advertising, ma quale se non è quello dei portali di informazione?

In UK, dove per il 2008 Carta Stampata e Online Advertising sono entrambe al 19% dello spending totale (spesa online in UK 3,4 miliardi di Sterline), il 60% delle revenues on-line sono state prodotte dalla “search”, ovvero dal keywords advertising (“search marketing”) di Google, di Yahoo! e di MSN. E di sicuro la maggior parte di queste revenues sono imputabili al primo dei tre.

E se guardiamo alle nuove “sperimentazioni” dell’online, qualcosa che non sia search, non va bene. Nel report US per l’online spending si legge che “Video ADs advertising”, la pubblicità inserita nei video online, è cresciuta al 3% del total spending online (circa 700 milioni di dollari) dal 2% del 2007. E’ un dato interessante, ma solo perchè accompagnato dall’annuncio di Google del 27 Marzo di terminare la possibilità di fare pubblicità nei Video usando Adsense.

VIDEO ADVERTISING RIMANDATO – Per Google la pubblicità tramite Video non produce il ritorno atteso e ha costi di gestione e controllo qualità che non ne giustificano il margine. Probabilmente gli stessi “inserzionisti” non sono in grado di produrre Ads nel modo corretto per generare un ritorno adeguato. Dopo tutto nemmeno i banner Flash in Adwords stanno funzionando come previsto, per le difficoltà di realizzazione e utilizzo sui siti del network di Google.

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Eppure i video e la pubblicità negli stessi sono gli esperimenti per Google per “arrivare” a proporre una bozza di piano strategico per l’advertising sui media come la Televisione, uno scenario in cui utente, connessione e adwords possono diventare revenue anche per il primo media mondiale così come oggi lo sono per internet. A quanto pare il modello ha ancora bisogno di tempo e quale momento migliore  se non ora per rimandare qualche sperimentazione.

Televisione 1, Google 0

Dopo tutto, lo stesso ex CEO di Yahoo!, Terry Semel, proveniva da quello stesso mondo delle televisioni per approdare nel media on-line più grande del mondo e farlo sposare con il media più grande del mondo (offline). Arrivato in Yahoo! fece shopping del miglior Search Marketing sul mercato, Overture, per poi farlo sposare con il più grande Media già esistente, sperando in un matrimonio unico nel suo genere e un primo tassello per il futuro del media advertising. Fu così, ma Google fu più veloce.

Ma per Google è solo questione di tempo. Intanto per continuare a produrre un progetto di video advertising gli serve che funzioni l’adversiting di Adwords anche su altri media “intermedi” come il Mobile ad esempio (che va a nozze con il Local, il business della local search che prende sempre più forma), dei pre-modelli che poi possono evolvere verso il video. Deve funzionare il behaviour targeting che sta costruendo in Adwords e in Adsense (il 97% delle revenues del 2008 di Google, il 99% nel 2006), deve possedere un pò di utenti, dalla prima connessione all’ultimo click e deve saper scegliere qualità degli Ads senza che sia l’advertiser a suggerirgliela.

Con obiettivi a lungo termine come questi, è facile posticipare ora quello che non funziona, riprenderlo tra qualche anno e nel frattempo attraversare un periodo di massimizzazione del Search Marketing e integrazione dello stesso in Mobile e Local.

Magie della crisi? 7,2€ di aumento dal nulla al mese nel leasing Volkswagen!

Che sia lecito, non ho dubbi.

Sta di fatto che con un colpo da veri maghi della crisi (o anti-crisi per loro?), la società di Leasing Volkswagen Bank manda una lettera annunciando di cambiare le modalità di “comunicazione” ed “esecuzione” degli addebiti, stando ben attenti a non fare mai riferimento alla parola “avverse condizioni”, “cambiamento delle condizioni” o “crisi”, per giustificarla come un “normale” decorso di un contratto di leasing.

I “cambiamenti” di comunicazione implicano semplicissime voci “aggiuntive” da pagare, ovviamente.

Spese per comunicazione 2€+IVA
Spese di incasso 4€+IVA

I leasing sono due, pertanto il tutto è raddoppiato, visto che la comunicazione la fanno due volte (anche se in modo identico).

volkswagen bank aumenta il costo del leasing

Fate due conti, sono 7,2€ lordi che per ogni fattura la Volkswagen Bank si incassa SENZA AVERE FATTO NULLA; per qualche migliaio di leasing nel mondo fa subito un 200-300 mila euro all’anno da contratti esistenti. Sempre che siano “solo” qualche migliaio.E visto che il leasing dura sempre un sacco di mesi (almeno 36), l’aumento è proprio un tocco da maestri. Lo chiamerei “un furto” se non fossi educato. 

Costi di comunicazione? Mandate una mail! Spese di Incasso? Leggete oltre.

Se nel 2008 le spese di Addebito RID erano di 0,50€, ora sono misteriosamente diventano di 1€, +100%. Che cosa coprono? Bè per la banca sono le “spese di incasso” degli organi coinvolti nelle operazioni, che guarda caso in parte è ancora la Volkswagen Bank ovviamente.

Alla faccia dell’aiuto delle banche e degli organi di controllo dei crediti!

Tim Armstrong in AOL, lascia Google.

Tim Armstrong diventa presidente e CEO di AOL. Presidente delle operations nelle America di Google Inc, lascia la posizione dopo avere costruito il più grande team media mai creato in una società Internet.

IN GOOGLE DAL 2000 – Armstrong era entrato in Google nel 2000 e aveva da subito posto le sue indicazioni di successo nello sviluppo di un modello e prodotto di Ads, Adwords e Adsense, che ha poi fatto la fortuna di Google come ben sappiamo.

Fino al 2000 Google non aveva bene in mente se il modello di Ads dovesse essere a CPM o a Display Advertising tramite una piattaforma come Doubleclick.

GOOGLE PRINT, TV E AUDIO ADS – Però Armstrong è stato anche quello che ha seguito lo startup di progetti come Google Print, Google Audio (!!!) Ads e Google TV, tutti progetti che sono stati annunciati in chiusura da parte del gigante di Mountain View.

Inoltre in AOL troverà non solo Google come competitor, ma uno peggiore: Time Warner stessa (Time Warner possiede AOL), che in periodi come questi quanta libertà vorrà disporre ai budget del nuovo CEO di AOL?

 

BRIAN BERSHAD E IL DOPO WEB DI GOOGLE – Intanto Google, per conto di Brian Bershad, una mente tecnologica uscita dalla “University of Washington” e in Google dal 2007 annuncia che la difficoltà di Google è ora quella di cercare e indicizzare tutti quei dati che non sono accessibili liberamente come invece lo è il web e che questa seconda fase sarà per Google di gran lunga più difficile rispetto ad un “semplice” indicizzare il web, che è libero e disponibile per tutti.

Farsi dare i dati dalle persone e dagli utenti è la cosa più difficile, meno di doverle poi organizzare.

Nello stesso tempo in Google è sempre estremamente attuale la discussione sui cambiamenti della SERP, la pagina dei risultati di ricerca.

Ad esempio, tempo fa dopo lunghe discussioni si volle cambiare la scritta indicante la pubblicità di Adwords in rosso, in modo di attirare maggiormente l’attenzione della gente e aumentarne i click e quindi le revenue.

Le revenue aumentarono, ma poi si scoprì che benchè la gente cliccasse di più, le persone, con il passare del tempo, osservavano di meno gli ads sponsor, deteriorando quindi la user experience. 

Gli ads sono tornati blu.

flickr_logo

FLICKR DI YAHOO!, FINALMENTE IL GIOIELLINO TORNA A CORRERE – Ma quello che mi ha stupito di più in positivo oggi è finalmente vedere che il piccolo gioiello in casa Yahoo!, Flickr, il sito di upload foto di yahoo!, mai integrato come si deve negli altri servizi di quest’ultimo, forse per paura, forse per incapacità, permette finalmente (un timito) upload di Video! E ci voleva tanto? Flickr è veramente molto carino e soprattutto molto facile da usare, più di Picasa ad esempio, e spesso nell’account Pro offre una serie di caratteristiche di indubbia validità, ma da anni Flickr era immobilizzato da un “strana” aurea negativa portata dall’acquisizione di Yahoo! e da lunghissime discussione di integrazione mai giunte a buon fine.

Lo shopping di domani: il “next e-commerce”

Se c’è una evoluzione darwiniana dell’e-commerce per gli shopping comparison è evidente, ma come e verso quale direzione si sta andando?

Due gli aspetti possiamo immediatamente inquadrare. 

  • Il prodotto (il sito per dirla breve) e come ci interagiamo: la shopping experience;
  • Il modello di business.

 

LA SHOPPING EXPERIENCE

Sono cinque le variabili che identificano l’analisi della “shopping experience”: l’offerta, il controllo, la convenienza, l’aspetto sociale e il contributo.

 

L’offerta dei prodotti

Lo shopping di una volta era limitato a pochi prodotti, a poche opzioni, a singoli prodotti, poche opzioni di ricerca se non nessuna.

Lo shopping di oggi è vasto in alcuni casi, parecchie opzioni a disposizioni per visualizzazione, scelta e selezione, e la ricerca sempre presente, ma giusto sufficiente.

Lo shopping di domani, il “next e-commerce” sarà quello in cui i risultati saranno giusti per me, la ricerca sarà la migliore e tali i risultati.

Nello stesso modo il Controllo è in evoluzione.

Lo shopping di una volta non dava assolutamente controlli all’utente, nessuna wish list, history, l’utente era SCONOSCIUTO fino all’acquisto.

Lo shopping di oggi ha introdotto controlli per l’utente di moderata entità, ma lo strumento di comunicazione più usato è la newsletter.

Lo shopping di domani sarà quello in cui io potrò controllare la mia esperienza, creare avvisi sui prodotti, avere history, poter fare confronti di prezzo, online e offline, salvare la mia esperienza e interagire per adattarla ogni volta meglio. 

Convenienza

Una volta lo shopping era una convenienza soltanto per il merchant. Era il negozio a decidere quando fare shopping.

Oggi la shopping experience è fatta per l’utente e spesso è conveniente per me.

Lo shopping di domani sarà quando potrò comperare sempre e in qualunque momento e da qualunque luogo.

Social e Connessioni

Lo shopping di una volta era solitario. Compravo da solo.

Oggi compro da solo, ma posso interagire con migliaia di opinioni e recensioni saltando di sito in sito, blog e forum.

Lo shopping di domani sarà quello di poter comperare grazie alla community a cui appartengo, chiedere consigli e avere risposte, ottenere e dare feedbacks autentici sugli acquisti.

Contributo

Lo shopping di una volta era un sito di ecommerce sviluppato per poi sperare che io ci andassi a comperare.

Lo shopping di oggi è ancora il negozio del merchant, ma per fortuna qualche volta posso dire la mia.

Lo shopping di domani è quello in cui la mia voce è un contenuto rilevante. posso costruire le mie opinioni, le mie pagine e la mia user interface, e condividerle con gli altri se apprezzate.

 

 

IL MODELLO DI BUSINESS

Il modello di business degli shopping comparison, praticamente degli agenti di vendita, è invece declinato anche in tipicità di internet (quindi come dei non agenti di vendita).

Per ogni click che mando al negozio, lo shopping comparison guadagna un certo valore (una media di 0,12€). Questo modello è tipico di internet, premia chi paga di più, ma si dissocia dalle normali dinamiche di vendita tipiche di un negoziante con il suo venditore in cui quest’ultimo è pagato sul successo delle vendite e non per il semplice fatto di fare entrare clienti nel negozio (che possono anche non comprare nulla o disinteressati).

Per ogni vendita che ti faccio fare, lo shopping comparison guadagna una certa commissione (una media del 4%). Questo è il modello più semplice per chi vende, è quello che naturalmente ci aspetteremmo anche online.

Ovviamente le due strade comportano diverse evoluzioni nel prodotto. La mia opinione è che il “next e-commerce” deve per forza evolvere attraverso il secondo modello di business, in cui negozio e piattaforma dello shopping experience tentano di risolvere aspetti di integrazioni con i negozi e con gli utenti non necessari nel modello in cui non mi interessa nulla del fatto che tu negozio sappia vendere, tanto paghi il click che ti mando in ogni caso.

La domanda vera è se il mercato è in grado di supportare un’evoluzione in quella direzione e quanto tempo dovremo aspettare prima che sia consolidato. Per questo chi sta percorrendo quella strada verso il “next ecommerce”, sta anche introducendo nuovi modelli di fidelizzazione.

 

DINAMICHE DI FIDELIZZAZIONE: Rebate e Cashback

Vi ricordate tutti il Riders Digest, vero? Era una pubblicazione mensile, oggi divenuta un colosso editoriale, nata nel 1922 negli Stati Uniti in cui il focus era quello di fare informazione popolare a 25c$ a numero. 

Ad appena 5000 copie vendute, essa introdusse un sistema di abbonamento che chiedeva ai lettori di pagare un certa cifra annuale fissa grazie alla quale si sarebbe fatto parte di un club di lettori esclusivi. Tali lettori avrebbero avuto la possibilità non solo di ricevere la rivista, ma anche di poter acquistare letture o pubblicazioni a prezzi molto più bassi di quelli di copertina. L’obbligo era di acquistare un certo numero di letture in un anno.

Un pay-per-club che tutt’ora è il modello di business di parecchie realtà che fanno vendita door-to-door oppure opt-in in cataloghi di prodotti riservati. Paghi una certa fee per poter acquistare prodotti venduti a prezzi molto più bassi di quelli in negozio.

Questo tipo di modello è oggi uno dei più remunerativi poichè praticamente la domanda-offerta è costruita quasi su misura e spesso la capacità d’acquisto di questa dinamica di business permette di operare con contratti vantaggiosi. In Europa online c’è ad esempio Webloyalty, gestita, tra l’altro, da Martin Child, ex CEO di Yahoo! Search Marketing UK.

REBATE E CASH BACK – Nella definizione di modelli di fidelizzazione che producano ritorno dei clienti c’è oggi online qualche forma di “rebate” o “cash-back”, come evoluzione di un modello consolidato dell’offline nord americano.

Però vanno spese due parole sul modello del Rebate tipico degli USA, perchè noterete subito che alcuni aspetti di quel modello non funzionano se portati online.

Come funziona intanto il Rebate? Semplice, si acquista un prodotto che costa 100€, all’interno del prodotto viene dato un sistema via mail o immediato per riavere indietro €20. Pertanto per poter pagare il prodotto 80€, è necessario a) spedire una cartolima e aspettare 4-6 settimane b) tornare al negozio con il coupon e ottenere i 20€.

La prima cosa da notare è che lo sconto è dato dal produttore e non dal negoziante. E’ chiaro che la prima domanda è perchè il prezzo non sia subito di 80€. Ovviamente nell’attività di “rebating” esiste una componente che si chiama “attrition” o “breakage” che determina in percentuale quanti rebate non giungono al successo per errori di compilazione, assenza di ricevute, date d’acquisto errate e altro. In ogni caso il rebate è spesso mail-in in modo da permettere al produttore comunque di incassare soldi e di doverne ridare una parte indietro dopo qualche mese, una specie di “prestito” destinato a qualunque tipo di investimento.

Insomma è un win-win per chiunque, sa il ciclo funziona sempre per tutti. Il produttore riceve più soldi subito, il negozio non rischia nulla, anzi può incentivare il prodotto con il rebate per ulteriori commissioni dal produttore e il cliente alla fine paga di meno.

Online oggi ci sono un pò di realtà che hanno preso questo modello e allineato alle esigenze di uno shopping comparison. Per primo Jellyfish, lo shopping poi comprato da Microsoft, aggregò centinaia di migliaia di prodotti 3 anni fa per primo offrendo un “rebate” su tutti i prezzi dei prodotti.

Il sistema lavorava nell’ottica di posizionare l’offerta come unica nel suo genere sia per gli utenti che per i negozi che vi partecipavano, sperando (come poi è successo) di generare interessi sempre più crescenti da parte di tutti.

Jellyfish non fa altro che fare accordi con i negozi che aggrega e stabilire una certa commissione sul venduto, come un agente di vendita. Stabilita la percentuale di guadagno, il modello di business sembrerebbe concluso. Più vendite ti porto e più commissioni guadagno.

Ma in Internet gli utenti vanno acquistati in varie modalità. Fidelizzare gli utenti con un sistema di Rebate è esattamente perfetto per un modello a commissione, poichè dei 10€ che Jellyfish prende dalla vendita di una stampante può decidere di darne una parte come “rebate” indietro all’utente che ha acquistato il prodotto.

E perchè no, anche il 100% di quello che Jellyfish guadagna.

In questo modo è come vendere prodotti i quali tutti contengano un rebate significativo. Come per il modello offline, anche online si deve aspettare. Aggressivamente Jellyfish può decidere di darti subito i soldi (un “immediate rebate”) sostenendo esso stesso l’esborso di cassa anticipato.

DIFFERENZE TRA IL REBATE OFFLINE E ONLINE – Bè, le differenze con il modello offline sono evidenti. Intanto nel modello offline, c’è proprio una componente di “insuccesso”, il “breakage” che fa parte del modello di business, che online non esiste più, poichè il 100% delle vendite e tracciato da tecnologie che non possono giustificare una “perdita” di una vendita. 

In secondo luogo non è più il produttore a fare “rebate”, ma un agente di vendita. Questo implica due problemi, un primo problema di cassa, visto che il produttore incassa di più e poi rende una parte, qui invece l’agente incassa un parte piccola che deve subito rendere all’acquirente. In secondo luogo il margine che rimane all’agente può essere troppo basso per sostenere il modello (anche se qui si introducono dinamiche nuove come quella del riders’ digest in cui una volta che il sistema funziona, semplicemente si va dai clienti e si crea un club, per anticipare cassa, creare capacità di acquisto e ribaltare il modello offline).

Abbassare il prezzo del prodotto è comunque alla fine la variabile. Non è difficile immaginarlo, ovviamente. A parità di qualità, a chi non piacerebbe pagare di meno una cosa, parecchio di meno?

La sfumatura tra “rebate” e “cash-back” è semplice. Benchè entrambi i sistemi abbattano un prezzo post-sale, in pratica nel cashback, i soldi indietro possono essere di chiunque, negozio, aggregatore, comparison o altri che sia. In questo caso un comparatore di prezzi fa il “cashback” perchè non è un produttore. Mentre è un “rebate” quando il prezzo di un prodotto viene tecnicamente abbassato con una fase di mail-in al produttore stesso, un’operazione di legittima proprietà dei produttori o distributori autorizzati.

Come Jellyfish, le dinamiche del cashback oggi le stiamo studiando in Bestshopping.com, il comparatore nato proprio su queste linee guida.

Ci sono altre realtà ovviamente oltre a bestshopping.com (ricevo spam regolarmente su questo blog da amministratori di S.R.L. ma che se contattati per approfondire l’argomento non rispondono nemmeno…), ma non sono veri e propri comparatori prezzo, ma seguono comunque dinamiche di cashback e rebate come quelle descritte in queste righe. Direi che sono più vetrine fatte con liste prodotti di altre affiliazioni e non contratti diretti con i negozi con lo scopo di accorpare indirizzi e-mail per generare business dal mailing e spesso, ahimè presentano online contratti legalmente discutibili, con clausole vessatorie non sostenibili e violazioni palesi nell’essere “sostituti di imposta” che sostengono di non dover fare ed essere a carico degli utenti! Insomma c’è ancora del far west in Italia, ma l’offerta del cash-back sarà sempre più presente anche in Italia.

Rif. Daily Net di oggi 18.02.2009 – pagina 12

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Yahoo! search marketing: il network di affiliati è qualità?

CAROL BARTZ – Non c’è dubbio che il nuovo CEO di Yahoo!, Carol Bartz, 17 anni in Autodesk, $19 milioni di dollari di stipendio per il 2009 in Yahoo! più bonus e stock option, abbia tutte le carte personali per risolvere la situazione in Yahoo!, quella di un business pubblicitario del display senza grandi crescite e quello della search decisamente in crisi, organica e paid che sia.

A differenza di Yang che per affetto personale verso Yahoo! non ha saputo conciliare l’offerta di Microsoft con se stesso, Carol Bartz ha saputo già risolvere i problemi in Autodesk con gran successo e senza trasformare l’azienda in qualcosa di diverso.

Yahoo! lo sa, il prodotto e i contenuti del portale sono ineguagliabili, almeno nella versione nord americana. I servizi on-line sono tra i migliori e la usability di Yahoo! è ancora una delle più attuali, costantemente sotto analisi. E di questo Carol ne è sicura.

SEARCH MARKETING DI YAHOO! – Quello per cui ha chiesto tempo dalle prime dichiarazioni è invece sul business della Search. Darla fuori oppure continuare a farla? Quali le opzioni, dismetterla e sostituirla con un partner, venderla e poi diventare un cliente di altri, unire le forze per poi transare lentamente? 

Tempo fa l’antitrust ha bloccato un accordo di minor entità tra Google e Yahoo! (giustamente) che avrebbe determinato un monopolio pericoloso. Pertanto se oggi deve succedere qualcosa, le opzioni per Carol Bartz non sono certo con Google.

TANTI PARTNER DI RICERCA NON FANNO BENE? – Nel frattempo, però, è proprio il business della search di Yahoo! a perdere sempre più potere. Non solo di reach, il numero di utenti che utilizzano Yahoo! non sale ma almeno non scende, ma la paid search di Yahoo, la Yahoo! search marketing, sta perdendo partner e traffico un pò ovunque.

Quando Yahoo! acquisto Overture (l’attuale Yahoo Search Marketing), la (s)vendita contemplava già una componente chiamata “perdita del network“, ovvero il fatto di diventare Yahoo! avrebbe fatto scappare i migliaia di partner di Overture, impauriti dall’arrivo e dalla competizione di Yahoo! stesssa sulla search e sull’advertising a click.

In realtà tale effetto non avvenne come previsto e la stessa YSM dimostrò che il network poteva resistere molto più a lungo e che Yahoo! non era un competitor del network. Diciamo che i soldi che la search portava erano tali da sistemare ogni cosa. Solo quando Google fu in grado di offrire molto di più agli stessi partner, il network di YSM iniziò a perdere colpi.

SE PERDI TRAFFICO, ALLORA DEVI… COMPRARLO! – Il problema di perdere traffico implica una serie di aspetti commerciali e di business non indifferenti.

Due i principali problemi se perdi traffico, il primo è che diminuiscono i clienti — quindi il bid medio che Yahoo guadagna dai click — e il secondo problema è che sei costretto a “comprare” traffico.

Il modo con cui Yahoo! oggi sta comprando traffico è quello di andare dai partner e chiedergli di portare più click possibili; in cambio i partner chiedono la lista delle keyword su cui c’è il maggior numero di clienti. Tale attività introduce delle componenti di “qualità” che, se non controllate, alla lunga aumentano l’entità del primo problema, ovvero il diminuire dei clienti, perchè all’aumento di click in modalità non spontanea corrisponde un diminuizione della conversione.

Yahoo! in questo momento è proprio in questa fase. Addirittura in US sono state cambiate le Terms and Conditions dei contratti degli inserzionisti per permettere agli editor di Yahoo! di poter modificare (in buona fede) i titoli, le descrizioni e le keyword delle pubblicità dei clienti, un’operazione che può anche generare maggior costo per il cliente, se questi non facesse opt-out (visto che l’attività è automaticamente attivatà per tutti di default).

Pertanto non solo oggi i partner di Yahoo! tentano di portare click sempre più innaturali, ma la stessa Yahoo! aumenta la capacità di tali click di … essere cliccati. Andrebbe tutto bene se ci fossero degli strumenti di controllo sui partner, ma con ben 1200 partners negli soli stati uniti, il processo può iniziare troppo tardi.

Qualcuno lo dica a Carol.

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